Una casa in pietra con il tetto di lose,
un balcone in legno con un angolo di gerani,
tende verdi alle porte che riparano dal sole,
un cortile di terra e un pergolato d'uva,
boschi alle spalle e prati in discesa
proiettati sulla pianura.
Il cinguettio degli uccelli,
il rincorrersi di farfalle,
il muggire di vacche,
il coccodè di galline
e l'abbaiare di Boby...
L'incanto della natura,
i rumori della campagna
e il ricordo di una vita intera.
C’era una volta una casa in collina circondata da prati, fiori, frutti, boschi; c’erano il cane da guardia,
le vacche nella stalla, i maiali nel porcile, i conigli
nelle conigliere e i polli nel pollaio
e c’era una famiglia che la abitava: il padre, la madre
e i quattro figli. Poi arrivai anch’io.
CAPITOLO I
Il cortile è immenso per una bambina di quattro anni. Corro in continuazione col mio bel vestitino; entro ed esco dallo stanzino dove si trova nonna, attraversando la cucina, una stanza spartana con la stufa a legna, la credenza e un tavolo rettangolare ricoperto da una tovaglia cerata. Dietro la porta, di fianco alla credenza, c’è la cantina con le botti per il vino; di fianco alla finestra, la porta spessa e pesante con il chiavistello che dà accesso alla stalla. Sul soffitto i ganci per appendere i salami.
Oggi l’atmosfera è diversa. Sono tutti troppo seri. Un rumore noioso e ripetitivo scandisce il silenzio. Guardo mamma, che a sua volta osserva nonna, e poi ritorno in cortile.
«Perché nonna Maria si trova in questo strano letto? Perché un signore che non ho mai visto fa un rumore fastidioso attorno a lei? E poi per quale motivo qualcuno non si decide a parlare e lo fa smettere? Nonna sta dormendo, bisognerebbe fare silenzio!»
Quel rumore tedioso e l’odore della fiamma ossidrica
restano stampati nella mia memoria per sempre. I ricordi precedenti a questo episodio sono sfumati o inesistenti. Mi sono posta alcune domande su come possa essere stata nonna e che cosa avesse fatto nella sua vita. Ho aspettato che fosse proprio la vita con i suoi fatti a far emergere i ricordi di un tempo, a
riportare a galla il passato, senza fretta, un po’ per volta.
Qualche fotografia sbiadita in bianco e nero, aneddoti catturati qua e là, oggetti appartenuti a lei, ma soprattutto luoghi in cui è vissuta che parlano di lei e del suo mondo di allora fatto di fatica e duro lavoro, di dispiaceri e di gioie, di figli e di nipoti, di alti e di bassi. Storia di vita vera, vissuta in un posto incantevole: la sua casa in collina nel cuneese. Un luogo semplice, rustico, privo delle comodità che conosciamo oggi,
immerso e quasi dimenticato in mezzo alla natura circostante.
Che cosa si è in grado di provare a quattro anni quando un evento sgradevole entra a far parte della vita e nessuno te lo spiega perché tutti pensano che sei troppo piccola per capire e per ascoltare? Probabilmente poco, quasi niente, perché il legame non è ancora abbastanza forte e consapevole da
permetterti di soffrire. Tutto appare naturale, un evento ineluttabile dell’esistenza che non va appesantito ulteriormente. Ma in realtà il ricordo di un affetto sincero rimane scritto, memorizzato dentro l’anima e riaffiora in seguito, crescendo. Si potrebbe paragonare a un resto fossile che
ha lasciato la sua impronta, o a un file cancellato che si può
recuperare perché in realtà è ancora nella memoria del
computer. Deve essermi successo questo. Il mio file non è mai
andato perduto e lentamente è stato ricondotto a galla dalla mia
consapevolezza e dall’amore che lei mi ha trasferito nei primi
anni di vita.
Prima di conoscere Torrebricco, la frazione in cui si trova la
casa in collina, bisogna spendere alcune parole sul paese in cui
è inserita: Barge.
È situato ai piedi del monte Bracco, a trecentosettanta metri
d’altezza, nella valle Infernotto nel punto in cui il torrente
Chiappera e l’Infernotto originano il Ghiandone.
In epoca romana era un piccolo villaggio della Colonia
romana di Cavour. Nel XII secolo la cittadina si trovava sotto il
dominio dei conti di Torino e nel XIII e XIV secolo passò prima
ai marchesi di Saluzzo e successivamente agli Acaia, e dal 1363
ai Savoia. A quel tempo contava solo cinquecento abitanti. La
popolazione viveva nella condizione di servi dei signori per i
quali coltivavano la terra e si occupavano di faccende
domestiche. Nel Quattrocento conobbe un forte sviluppo grazie
alla lavorazione del ferro e fu luogo d’incontro di mercanti
provenienti dalla pianura e da oltralpe. Il Cinquecento, invece,
fu un periodo funesto per gli orrori della guerra e il continuo
passaggio di eserciti spagnoli e piemontesi che lasciarono
distruzioni e miseria, culminato con la peste del 1630 che
devastò la regione. Nonostante ciò i bargesi crebbero di numero e in ricchezza e il paese venne tenuto sempre più in
considerazione per la sua posizione strategica e per il suo fortecastello. Nei secoli successivi vi fu una rapida ripresa e i primi
anni del Novecento portarono un periodo di prosperità legato
allo sviluppo industriale.
Oggi Barge è un paese prevalentemente agricolo, con
produzione di castagne, mele e con la presenza di industrie
legate alla raccolta e alla conservazione dei funghi porcini.
Un’ulteriore risorsa è rappresentata dallo sfruttamento delle
cave di gneiss da parte delle industrie locali.
Lasciamo Barge alle nostre spalle e proseguiamo sulla
statale che conduce a Saluzzo. Imbocchiamo una stradina
asfaltata alla nostra destra e saliamo lentamente nella frazione.
Costeggiando boschi e vigneti, orti e frutteti raggiungiamo
una strada di ghiaia, con al centro una striscia d’erba che
diventa sempre più stretta, e finalmente ci troviamo dinnanzi a
una salita con una curva a gomito. Superiamo velocemente un
bosco di castagni e un vecchio pozzo in guisa di casetta. Sulla
riva sinistra, nella stagione giusta, si vedono le prime fragoline,
oppure la garitola, un fungo giallo che oggi si trova raramente
persino nei boschi. Con l’inizio della primavera la primula, un
allegro fiore giallo che fischia soffiando tra i suoi petali, fa
capolino tra i fili d’erba. Attratti dalla natura a portata di mano
raggiungiamo il cortile di una casa rurale, quasi nascosta e
preceduta da un pergolato d’uva nera che la incornicia. Il
rumore del motore scatena l’abbaiare di un cane, si intravede
un cortile e oltre non si può andare È un luogo incantevole, privo dell’ombra fredda della
tecnologia e del progresso, dove il cinguettio degli uccelli e i
rumori di strani animaletti creano un piacevole sottofondo,
facendo dimenticare che esiste il resto del mondo, perché ciò
che necessita al corpo e allo spirito è racchiuso là tra verdi
colline, prati in fiore, boschi incontaminati e strade di terra.
In questa casa di campagna, isolata, che conserva il sapore
di un tempo, sono nati papà e i suoi fratelli. La casa di nonna è
uno scrigno magico dove introdurre la mano e prendere
casualmente un oggetto che apre il sipario dei ricordi: un
pergolato d’uva nera, una vasca per contenere l’acqua di
sorgente, un cortile di terra, una casa di pietra con il tetto di lose
e le finestre con le tende verdi per il sole... tutto ciò ci accoglie,
invitandoci a entrare.
Oggi è un giorno qualunque, ognuno è al proprio posto di
lavoro, qua e là, su per la collina e nei boschi. Il sole stamane ha
rischiarato più del solito il cielo autunnale. Zio Cech è andato
per funghi; si è alzato all’alba e ha camminato nell’umidità
mattutina del bosco scansando foglie secche, rametti e
calpestando muschi. Ma la sua fatica è stata ricompensata: la
cavagna è stracolma di bulé, il classico fungo porcino, ma anche
di crave, garitole e funghireali a forma di uovo, deliziosi conditi
a insalata con un po’ d’olio, aceto e un pizzico di sale.
Zio Cech, diminutivo piemontese di Francesco, è un uomo
alto, di corporatura normale, quasi calvo e, da che mi ricordi,
senza denti. Da bambina mi stupivo quando, per farci ridere, se
mio fratello e io gli chiedevamo di toccare il naso con la lingua
ci riusciva senza difficoltà andando anche oltre le nostre aspettative. Porta sempre un basco sulla testa, forse per
ripararsi dal freddo e dal sole, che sostituisce con un cappello
di paglia quando svolge il suo lavoro nei campi. Non si è mai
sposato, fatto che ho sempre trovato strano perché non è brutto
né sgradevole, non ha niente di meno degli altri fratelli.
Guido, invece, è sempre indaffarato, non lo si vede spesso.
Trova sempre qualcosa da fare. Lui sì che si deve essere
divertito da giovane. Ha l’aria furbetta e, secondo me, avrà fatto
strage di cuori. A differenza di Cech, non è molto alto ed è più
in carne. È sfuggente, non si riesce a bloccarlo, a parlargli, un
momento è qui e un momento dopo è chissà dove. Guido si è
sposato e ha avuto due figli, un bambino e una bambina. A
proposito di lui: ricordo le torture che da piccola gli infliggevo
per divertimento. Si lasciava fare di tutto. Credo che mi volesse
veramente bene, almeno sino a quando non si è sposato ed è
divenuto papà. Non posso fargliene una colpa, i figli richiedono
attenzioni e affetto e quindi una nipote, seppur affezionata, non
può né deve prendere il loro posto e contendersi l’affetto, anche
se le due cose, a mio avviso, possono coesistere. E poi le neo
mogli, o per meglio dire, noi donne, richiediamo e pretendiamo
attenzioni solo per noi dal nostro sposo; così mi sono dovuta
scansare, mettere da parte e sono cresciuta provando un po’ di
soggezione verso lo zio strappatomi via dalla sua nuova
famiglia. Chissà se lui se n’è mai accorto!
Caterina è l’unica sorella in mezzo a tre fratelli che
avrebbero potuto essere quattro se il destino avesse voluto. Per
me lei è sempre stata la direttrice d’orchestra in quella casa
piena di uomini. Si è allontanata presto dalla sua famiglia perché si è sposata giovane e suo figlio Giorgio, mio cugino, è
il più grande di tutti. In realtà si chiama Luigi, come il nonno e
come papà, ma a qualcuno, forse, non piaceva questo nome, e
quindi lui è stato ed è per tutti Giorgio. Me lo ricordo già
sposato e con figli, quindi in un rapporto con noi, più piccoli,
non alla pari. Infatti mi sono sempre sentita più cugina dei suoi
figli che sua. Il più grande, Dario, aveva soltanto due anni meno
di me.
Zia Caterina restò vedova dopo venticinque anni di
matrimonio. Ricordo ancora, quando con mamma andai a
trovarla a casa sua a Torino, quanto piangeva. Non l’avevo mai
vista piangere. L’ho sempre giudicata una donna forte.
Ha molti capelli e voluminosi, Caterina, che tiene sempre
piuttosto corti, è di corporatura robusta ed è quella che somiglia
di più a papà in viso. Da giovane la cornata di una mucca le ha
rovinato un braccio, così da allora non ha più potuto stenderlo
né ruotarlo come prima. Dopo la morte del marito ha
conosciuto un altro uomo con cui ha vissuto più tempo che col
primo, ma anche questa volta il destino glielo ha portato via. Si
è trovata, in vecchiaia, da sola un’altra volta, sconsolata, con
nipoti già adulti e un figlio impegnato con la sua famiglia.
Luigi è mio papà, l’ultimo, il più giovane. A diciotto anni ha
lasciato la sua collina per andare a lavorare a Torino in una nota
fabbrica di automobili, come del resto ha fatto anche Guido. È
riuscito a finire sotto un trattore, non per colpa sua, e a uscirne
senza conseguenze, se si esclude un periodo col gesso alla
schiena che lui stesso si è tolto quando ne ha avuto abbastanza.
È di statura media, magro, capelli neri portati all’indietro. Ha sposato mamma dopo i trent’anni e dalla loro unione siamo nati
io e mio fratello Fabrizio. Ha un carattere schivo e poco
socievole e in piemontese può essere definito un “Gabiola da
sul”, un solitario, introverso, poco incline alla chiacchiera e alla
confidenza. Nel periodo in cui era fidanzato con mamma che
lui, usando un diminutivo, chiamava Lia, se qualcuno dei suoi
parenti o conoscenti della frazione lo incontrava e gli
domandava se andasse a lavorare o a trovare lei, luirispondeva:
«Vun figna lì.» Risposta un po’ vaga ma chiara che tradotta
significa: “Fatti i fatti tuoi!”
La famiglia non è ancora al completo perché mancano tre
persone all’appello. Di una, mio nonno, Luigi come papà, non
so quasi nulla se non che è morto relativamente giovane. Gli
altri due, nonna Maria e zio Fredo, li scopriremo poco per volta.
SEGUE...
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