12.03.2020 г., 9:35 ч.

 Profumo di nonna Capitolo III 

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La mattina qualcuno va nella stalla a mungere la vacca riempiendo un tegame, sale gli scalini, attraversa la porta col chiavistello ed entra in cucina. La stufa, in inverno, già calda perché costituisce l’unica fonte di riscaldamento, è pronta ad accogliere quel buon liquido bianco, denso e profumato. Nonna lo fa bollire dosando sapientemente la fiamma; qualcun altro arriva dalla grotta con la toma e un “pintone” di vino, un bottiglione della capienza di due litri con il tappo ancora di quelli a macchinetta che sigillano sicuramente meglio il buon nettare degli dei; appoggia tutto sul tavolo e intanto prende dalla credenza il micone, ancora fragrante, per accompagnare il formaggio. Poi ognuno si destina alla giornata nei campi, compresa lei, l’anima della casa, pronta a ritornare in tempo per  cucinare il pranzo ai propri figli. Al pranzo segue una pausa prima della ripresa delle varie mansioni. Tutto è misurato, ogni movimento è calcolato, lento e preciso e cela una motivazione che potrebbe apparire incomprensibile, a prima vista, a chi non appartenga a quei luoghi e a quella vita: quando il lavoro è faticoso bisogna dosare al meglio le energie.
La cena li ritrova riuniti intorno al focolare a chiacchierare della giornata appena trascorsa o di quella ancora da venire.
Immagino che non avere un marito fosse dura. Non potersi sfogare con qualcuno, tenere probabilmente ogni dubbio, ogni preoccupazione per se stessa non sarà stato facile.
Nonno Luigi l’ho visto la prima volta in un ritratto su una tavoletta di legno concava appesa sul muro dell’ingresso di casa nostra. Un bell’uomo dal viso austero con lunghi baffi all’insù curati e di colore castano tendente al rossiccio. Sembrava un aristocratico. Papà porta il suo nome.
Essere al tempo stesso uomo e donna, padre e madre è impegnativo. Ma lei ha una forte tempra e avrà dato sicuramente filo da torcere a tutti i suoi figli.
Non c’è un bagno. La rusticità della vita campestre è accentuata anche da questo particolare. Ci si lava con l’acqua di sorgente e il gabinetto è un rifugio in pietra coperto da una tenda in un luogo appartato, poco lontano. Ma non ci si formalizza; in campagna un angolo appartato all’interno di un bosco è sufficiente e i cosiddetti sanitari sono quindi pressoché inesistenti.
Durante l’estate, dopo cena, tutta la famiglia siede fuori, sugli scalini, sulle sedie di fianco al tavolo esterno, oppure sta  in piedi, finché il sole non scompare dietro l’orizzonte, a discutere o ad ammirare il cielo stellato in rispettoso silenzio.
Nei mesi freddi è il calore della stufa a unire la famiglia, anche se il freddo non li spaventa, né impedisce loro di uscire di casa per prendere una boccata d’aria fresca.
Manca un vero impianto di riscaldamento e la notte in inverno è corroborante, la stufa riscalda le pareti ma le lenzuola sono gelide e non ammettono tentennamenti. Nonna Maria dorme in un letto alto in ferro battuto in una stanzetta al primo piano alla quale si accede da una scala esterna in pietra. Nella stessa camera sotto la finestra, accanto al muro, si trova il giaciglio di uno dei suoi tre ragazzi, Cech.
È una donna di una lega speciale che trotta dalla mattina alla sera senza sosta; anche volendo per lei sarebbe difficile ingrassare a questo ritmo. Non si risparmia fatiche neppure quando è incinta, e lo è stata cinque volte. È probabile che
qualcuno dei suoi figli, o forse tutti, abbia rischiato di venire al mondo fra i campi, dentro un orto, in una vigna o in mezzo a un frutteto. In tal caso, che nascite bucoliche sarebbero state: in 
mezzo alla natura, ai fiori appena sbocciati, all’uva pronta da cogliere o in chissà quali e quanti altri luoghi pittoreschi, ma poco consoni a un parto.
Vive con loro anche uno zio, il fratello di nonno nonché cognato di Maria. Sono in sei: i quattro figli, Cech, Guido, Luigi e Caterina, il cognato Fredo e Maria.
Caterina presto si sposa, abbandona la campagna e va a vivere a Barge. Nonna Maria si trova a essere l’unica donna in mezzo a tanti uomini da accudire e da tenere a bada.

Il cognato, Fredo, è un uomo buono con occhi che ispirano dolcezza. È simpatico con quei baffi, il naso a punta che si inarca sulle labbra sottili; è basso di statura e sempre accompagnato dalla pipa, la sua fida compagna. Nei momenti di relax si siede fuori su uno scalino davanti alla portafinestra della stanzetta al piano terra con un cappello di paglia sulla testa e prepara la sua pipa. Fuma lasciando nell’aria un buon odore. Si intrattiene con i nipoti o i conoscenti che passano a trovarlo. In realtà per raggiungere la casa bisogna proprio avere l’intenzione di andarci perché non è in una zona di passaggio. Dietro di essa ci sono i boschi e dall’alto domina i campi circostanti. È necessario percorrere una lunga salita e, anche se si preferisce affidarsi alla scorciatoia tra i boschi, la fatica non è minore perché una scorciatoia che porti verso l’alto implica un cammino completamente in salita. Non si può neppure sorprenderli perché l’antifurto scatta al minimo rumore sospetto. Un cagnolino dal pelo lungo bianco e rosso col musetto da volpino abbaia senza sosta per avvisare i padroni dell’intruso.
A me piace zio Fredo. È bello fermarsi a guardarlo mentre fuma e ascoltare le sue storie. È simpatico ed è il più gioviale di tutti. A volte, quando è la stagione giusta, scendo con lui lungo
i filari di viti a terrazzo a raccogliere le ciliegie che si affacciano da alberi prospicienti le vigne. Riempiamo insieme la cavagna e poi rincasiamo. Ma una mattina, sbadatamente, faccio rovesciare la cesta e quasi tutto il suo contenuto si sparge sull’erba. Scappo pensando che zio si inquieti, ma in realtà Fredo è così buono che capisce e non ne fa parola, tanto che da quell’episodio gli voglio ancora più bene.

Per me è un divertimento scorrazzare su e giù per i prati, in mezzo alle vigne e accompagnare gli adulti nei campi, perché mio fratello è ancora troppo piccolo per condividere queste esperienze. Mi piace seguire papà o zio Cech nei boschi per  cercare i funghi buoni e imparare a riconoscere quelli velenosi. 
Preciso papà e zio Cech, in quanto zio Guido è solitario e sgattaiola prima che qualcuno riesca ad accorgersi che è altrove.
Quale gioia, poi, quando da sola riesco a tornare a casa con un bel porcino, una crava, un classico fungo dalla cappella brunorossiccia, o una gigantesca lingua che cresce attaccata alla corteccia degli alberi ed è viscida e proprio a forma di lingua. 
Non c’è niente di più buono di un bulé impanato e fritto come lo cucina mamma.
Il rumore delle foglie calpestate scandisce il passo dentro quell’immenso e misterioso luogo che è il bosco ricco di castagni, felci e arbusti. Da sola mi avventuro nella fitta vegetazione per imparare a conoscere l’ambiente circostante. Si sentono strani suoni di fauna locale, vocalizzi di uccellini, 
frinire di cicale e lo strusciare sull’erba e sotto le foglie di ignoti e, spero sempre, innocui animaletti. Ma la meta, nonostante i timori, merita. Si aprono scenari da cartolina a strapiombo sulla valle o prati estesi che a guardarli viene voglia di correre e rotolarvisi. La bambina curiosa sta crescendo in mezzo alle piccole scoperte di ogni fine settimana e di ogni vacanza estiva.
Zio Fredo, purtroppo, se ne andò per sempre portato via dal graffio di un coniglio. Non ho ricordi di sofferenza, ma mi sovviene d’averlo visto disteso dentro una bara, come se dormisse, e con un braccio fasciato. Come si può morire per un graffio! Non capisco ma maturo risentimento verso l’ospedale che lo ha preso in cura. Non lo avrei più rivisto con la camicia da notte bianca e il suo berretto da notte, nella stanza da letto accanto alla mia, al piano di sopra, che parlava della sua semplicità.
Mi ispirava bontà e mi rendeva serena osservarlo fumare la pipa o eseguire le sue mansioni quotidiane con calma e determinazione.
Assisto sempre con freddezza all’uccisione del coniglio, che viene colpito alla testa con un colpo secco, legato a un palo di legno lontano dalla vista e spellato senza pietà e con maestria da zio Cech, per poi essere cucinato. Non provo pena per l’animale e non riesco a capire il motivo della mia scarsa sensibilità. Non è naturale rimanere impassibili davanti a uno spettacolo simile. In me inconsciamente vive il ricordo di zio Fredo portato via dalla sua vita proprio dal graffio di uno dei conigli che allevava, nell’atto quotidiano di dar loro da mangiare e pulire le gabbie.
Conservo ricordi piacevoli di zio Fredo e provo sempre una gradevole sensazione quando mi ritorna alla memoria un particolare di quell’uomo anziano dal passo cadenzato e dal
viso sorridente.

 

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